mercato“La mia scelta di vita e lavorativa? Una sfida interessante, appassionante e complessa come questo Paese. Dove anche solo migliorare le condizioni di vita dei più vulnerabili, e provare a risolvere nelle piccole comunità locali le difficoltà anche solo più contingenti ma già enormi, è una prospettiva stimolante e necessaria”.


Alessandro Cadorin, classe 1981, di Sarmede e quindi della nostra diocesi di Vittorio Veneto, è da tre mesi nuovo responsabile di Caritas Italiana ad Haiti, nuova tappa di un percorso professionale e personale in zone fragili nel mondo, tutto all'interno di Caritas: nel 2009 casco bianco in Kosovo, poi in servizio in Georgia, poi responsabile Caritas Italiana per Albania, Macedonia, Montenegro e nuovamente Kosovo, poi la decisione di partire per l'America Latina a chiudere un cerchio di raggio quasi decennale: quando fece domanda di servizio civile Caritas, la sua idea era andare in Guatemala.

“Caritas Italiana – racconta Cadorin, ed è un primo pugno nello stomaco - è presente ad Haiti dal 2010, quando un terremoto del settimo grado ha causato più di 300.000 morti, secondo le stime. Così tanti, e in situazione igienica così precaria, che migliaia di cadaveri sono stati trasportati anche con i camion della nettezza urbana e accatastati in una fossa comune”.

haiti6E oggi, sette anni dopo il terremoto, come appare Haiti?

“A volte passando per le strade delle città sembra di essere finiti tra le rovine di un paese bombardato. E' il paese più povero dell'intero centro e sud America, e non sembra trovare tregua dalle catastrofi naturali, come l'uragano Matthew di ottobre. Le case sono fatte di terra e lamiera: una stanza vuota, a volte senza nemmeno il pavimento. Per questo, oltre che per il caldo assillante, gli haitiani vivono soprattutto per strada.
La missione dell'Onu Minustah, che a breve lascerà il paese causando non pochi timori per la sicurezza, verrà ricordata dalla popolazione come una sventura: i soldati sono accusati di avere portato il colera - in un contesto in cui sicuramente le malattie non mancavano- e anche di essersi resi colpevoli di sfruttamento sessuale ed abuso sui minori.
Ma Haiti è una nazione ancora devastata, prima di tutto, dall'individualismo e dalla sopraffazione. Con lo sperpero di potenziali enormi rimasti inespressi come l'agricoltura e il turismo: si autodefinisce “la perla delle Antille” ma per ragioni di sicurezza ed infrastrutture non ha turisti, malgrado spiagge bellissime".

Cosa fa Caritas Italiana ad Haiti?

“Sono molti i progetti in corso con i nostri partner locali. Con Caritas Haiti, ad esempio distribuzione di sementi e animali da allevamento, formazione agricola, ristrutturazione di case devastate dall'uragano, ma pue un progetto di rafforzamento delle Caritas parrocchiali con supporto alle 10 diocesi haitiane.
Collaboriamo con i Piccoli Fratelli di Santa Teresa, una congregazione di frati che lavora con le comunità di contadini (80% della popolazione) per iniziative di sviluppo agricolo ma anche di sola sicurezza alimentare.
All'interno della prigione femminile sosteniamo un progetto con la Commissione episcopale nazionale Giustizia e Pace per dare consulenza legale a migliaia di reclusi che il sistema penitenziario spesso 'dimentica' in carcere anche dopo il fine pena, dentro celle sovraffollate”.

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Ha definito il suo trasferimento"scelta di vita e di lavoro". In che senso?

“Quando scegli di fare un lavoro che ti porta ancora a vivere lontano dalle tue origini, ad avere poche certezze, a convivere con l'essere straniero e perennemente sradicato, a costruire amicizie con persone che rimangono nel tuo stesso posto solo pochi mesi a volte, e quindi dover fare un po' la scorza alla separazione... a volte questo porta a non investire sulle esperienze, per evitare di patire il distacco. Ma certo, con chi rimane più tempo, e sono poche persone, i legami sono belli profondi”.

Ha vissuto e lavorato in Kosovo, Georgia, Macedonia, Albania, Haiti. Queste esperienze hanno cambiato la sua percezione di cosa è essenziale? Ci sono oggetti o cose che la hanno seguita in tutte le esperienze e da cui non vuole separarsi?

“Nessuno, a parte il computer. Non riesco a circondarmi di troppe cose, non mi interessano, sono una persona estremamente spartana e per niente narcisista. Per me “casa” è- il posto dove mi fermo a dormire per più di 5 giorni. Mi piace viaggiare leggero e senza troppe nostalgie, penso che in questo modo sia più facile adattarsi, partire e ripartire”


Per fare un lavoro come il suo è necessario essere capaci di sentire nel profondo le ingiustizie del mondo ma anche, in alcune situazioni, avere freddezza e sguardo professionale, come un chirurgo. Come si trova l'equilibrio?

“Ci si muove tra il cinismo e il distacco che a volte ti prendono per non farsi troppo ferire da realtà dure o dall'inefficienza dei paesi dove si lavora, e dall'altra parte l'entusiasmo, la creatività e la riflessione per trovare le soluzioni più efficaci ai problemi che si affrontano.
Alla gente piace pensare che i cooperanti o sono dei missionari dal cuore puro o sono degli spreconi di soldi. In realtà sono solo persone che cercano di fare un lavoro e di farlo al massimo delle proprie potenzialità. anche sacrificandoropria vita personale. Ma mi vien da dire che chi ha sogni troppo alti e utopici, non può durare, cosi come non può durare chi di fronte alle ingiustizie non ha la forza di trovare dei modi di reagire".

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