In occasione della veglia per la Giornata mondiale della pace della Diocesi di Vittorio Veneto sul tema della "giustizia riparativa", il direttore della Caritas diocesana don Roberto Camilotti ha raccontato a L'Azione l'esperienza della collaborazione con l'Ufficio Esecuzione Penale Esterna, che in 4 anni ha portato 120 persone a svolgere servizi socialmente utili o messa alla prova presso Caritas. Ecco l'articolo.

Da quattro anni è in atto una convenzione tra Caritas Diocesana di Vittorio Veneto e la sede distaccata di Treviso dell'Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) di Venezia: l'ufficio, cioè, che si occupa anzitutto delle misure alternative alla detenzione.
Caritas, tra i suoi vari servizi alla persona, si rende disponibile all’accoglienza e all'accompagnamento di persone alle quali il Tribunale o ha concesso la possibilità di riparare un danno creato da un comportamento illegale con dei “servizi socialmente utili”, o chiede una “messa alla prova” per dimostrare, dopo aver commesso un reato, le riacquistate buone intenzioni.

In questi 4 anni sono state circa 120 le persone che hanno chiesto, di solito tramite l'avvocato, di svolgere servizi socialmente utili o periodo di messa alla prova; a tutti, tranne qualche rara eccezione, Caritas ha dato risposta positiva, dopo un colloquio di reciproca conoscenza.

Molto interessante è il primo approccio. Non solo per la particolare situazione psicologica che le persone stanno vivendo quanto piuttosto per l'incontro con il nuovo ambiente: spesso sono completamente digiune non solo dell’esistenza, dell’identità e dell’operare di Caritas, ma pure della Chiesa e del suo complesso mondo.
In maggioranza sono uomini, le donne in misura minore; frequentemente sono di mezza età, ma non mancano i giovani e le giovani e qualche persona ultra sessantenne. La maggior parte ha commesso dei reati inerenti alla modalità della guida; altri, in misura minore, scontano condanne per problemi legati al fisco.

Le ore di lavoro socialmente utile che queste donne e questi uomini svolgono in Caritas vanno da un minimo di 60 ad un massimo, almeno fino ad ora, di trecento. In alcuni casi il Giudice stabilisce che ci sia anche una pena pecuniaria da versare ad un fondo di solidarietà.

Il servizio che Caritas propone è vario: lavoro manuale e fisico, lavoro di ricerca o di ufficio...la maggior parte delle persone, invece, è indirizzata alle case di accoglienza gestite da Caritas per una presenza di sostegno, di servizio e di condivisione con gli ospiti delle case.
Si decide per un servizio o l' altro in base alla predisposizione della persona, ad eventuali competenze e capacità. E con l'attenzione a che il servizio che devono compiere in Caritas non metta in discussione il lavoro che già stanno svolgendo.

Se dovessi riassumere con un aggettivo le caratteristiche di questa esperienza di accoglienza direi che generalmente è una esperienza... simpatica.
C’è quasi sempre un graduale passaggio delle persone dalla rigidità - e qualche volta, dalla vergogna- all’entrare gradualmente in rapporto sereno e costruttivo con la realtà che li circonda. Davvero una relazione che diventa “simpatica”, che porta chi arriva in Caritas ad accettare positivamente la “pena” che stanno vivendo. Nella consapevolezza di una reale trasgressione avvenuta, e nella percezione netta che quanto stanno vivendo, in un ambiente a loro prima totalmente sconosciuto, sta dando loro delle buone opportunità per valorizzare maggiormente e con generosità, i doni che si portano dentro.
A conclusione del percorso riparativo, quale la soddisfazione più grande? Il salutarsi cordialmente e il sentirsi dire: io qui ci torno ben volentieri!
E questo accade parecchie volte.

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