Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani, per fare il suo lavoro oggi. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per raccontare di sé agli uomini di oggi. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora; siamo l’ultimo messaggio di Dio, scritto in opere e parole (Autore fiammingo, XIV secolo).

Nella nostra cappellina in sede Caritas ci accompagna, con la sua presenza discreta e silenziosa, una scultura che raffigura Cristo. Da un tronco è stato sbozzato, attraverso il lavoro sapiente dell’artista, una immagine di Gesù che lo ritrae in modo un po’ particolare: senza braccia, senza gambe né piedi, con un volto che appena si intuisce. Sembra un Cristo in gestazione, nell’atto di uscire da una sorta di bozzolo, quasi un preludio di risurrezione.

Celebrando la Messa in Caritas, in uno di questi giorni, m’è caduto lo sguardo su questo Cristo, visto tante volte distrattamente, ma in verità mai davvero guardato. Subito mi ha richiamato alla memoria una nota preghiera, di antica tradizione: “Cristo non ha mani, ha le nostre mani; non ha piedi, ha i nostri piedi; non ha labbra, ha le nostre labbra”.

Forse è questo oggi il più bell’augurio pasquale che anche noi possiamo scambiarci: quello di essere noi stessi il compimento della figura di Cristo, scoprendo che siamo parte del suo Corpo, della sua vita.

Ce lo ricorda in questi giorni – la sera del Giovedì Santo – la memoria dell’Ultima cena: “Questo è il mio corpo, questo è il mio Sangue”. Ce ne nutriamo in ogni Eucaristia per diventare ciò che siamo: membra del suo Corpo. È il fondamento della fraternità, esito di una comune appartenenza al Corpo di Cristo
A Natale ci auguravamo di essere “casa”, di essere “famiglia”, di essere “Chiesa”. La Pasqua di Gesù ci suggerisce il modo nel quale esserlo.

Essere mani: mani che si allungano per accogliere, per rialzare, per incoraggiare per sostenere. Mani che si danno da fare, magari segnate dal trascorrere del tempo o da qualche incidente di percorso. Mani che sono il nostro primo approccio verso gli altri quando ci presentiamo tendendo la mano. Mani che possono talvolta anche colpire, chiudersi, creare distanze. Mani forti e fragili, essenziali per aiutare ma capaci di ferire, mani delicate o callose, alle quali – indistintamente – è consegnato il dono l’Eucaristia: “Prendete e mangiatene”. Mani a cui è chiesto di prendere il Corpo di Cristo: il Corpo di Cristo nel sacramento dell’altare, il Corpo di Cristo nel sacramento dell’umanità. Quanti brandelli del Corpo di Cristo sono oggi rappresentati da un’umanità scartata e umiliata! Anche questo è Corpo di Cristo da prendere e adorare, da custodire in sé, da riscattare e da accompagnare.

Essere piedi: quei piedi di fronte ai quali Gesù stesso si è chinato per lavarli. Piedi che continuano a tracciare percorsi di speranza, prolungamento di quella corsa agitata verso una tomba vuota il mattino di Pasqua, diventata corsa per annunciare la salvezza. Piedi che continuano a farsi prossimi al passo stanco e deluso di coloro che non hanno più motivo per credere, né in Dio né in stessi, come i discepoli di Emmaus, per condurli all’incontro con il Risorto. Essere piedi che osano addentrarsi nei sentieri più bui dell’umanità – la propria umanità, prima che quella degli altri – per raggiungere le più torbide oscurità interiori e vivere l’esperienza della misericordia di Dio.

Essere labbra: per essere eco della preghiera del Venerdì Santo di Gesù sulla croce: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, una preghiera che continua a salire a Dio da una larga parte di uomini e donne che sono vittime della guerra, della fame, dello sfruttamento, della violenza, dell’abbandono, dell’ingiustizia, della persecuzione. Labbra che dicono, come Gesù in croce, parole di perdono e che, per questo, dischiudono il Paradiso. Labbra che fanno propria la gioia dell’annuncio della risurrezione, in un entusiasta “Alleluia” che riecheggia in tutta la liturgia del tempo pasquale. Labbra che si fanno interpreti dell’incredulità di Tommaso, ma che poi prontamente riconoscono davanti a Gesù: “Mio Signore e mio Dio”. Labbra che dicono parole di coraggio, che sanno chiedere scusa. Labbra che non dicono nulla di fronte al dolore altrui come segno di rispetto, perché hanno capito la verità e la delicatezza del silenzio. Labbra che sanno baciare ed esprimere con piccoli gesti l’affetto della vicinanza e il calore della prossimità.

Auguri di buona Pasqua, cari amici!

Auguri consapevoli e, per questo, esigenti: perché ci chiedono di credere nella potenza della risurrezione. E ci chiedono di lasciarci scomodare, per continuare a dare compimento al Corpo di Cristo – alle sue mani, ai suoi piedi, alle sue labbra – perché anche altri, soprattutto i più poveri, possano percepire che la risurrezione di Gesù non è una “favoletta” primaverile, ma una parola di verità anche per la loro vita.

Don Andrea

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